Philip Renard
3ème Millénarie n. 72 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini - I parte
Una delle espressioni più correnti su un cammino di realizzazione del Sé è:
“Lasciar andare all’ego”. Quale ne è il significato esatto?
Beninteso, esso non si riferisce alla forma
banale dell’ego che tutti conoscono, come l’egocentrismo o l’egoismo. Infatti
l’egoismo è chiaramente respinto da tutti, anche da quelli che non seguono un
cammino spirituale.
Il lasciar andare rispetto a questa forma
“primaria” dell’ego è insufficiente su una via di liberazione.
L’ego, nominato dagli insegnanti delle vie
di liberazione come ostacolo fondamentale, è un’attività pensante che funziona
attraverso proiezione, identificazione con un oggetto esteriore, che di
conseguenza sarà visto e giudicato. E’ una rappresentazione di sé, valutata
attraverso un continuo paragone con altre rappresentazioni sedicenti
indipendenti, considerate inferiori o superiori a se stessi.
L’ego infatti si compone di atti di
paragone. E’ visto come la coscienza di sé, con tutte le sue inibizioni della
spontaneità o della vita che ne derivano. Si attacca alla scissione interiore,
al solco delle abitudini che osserva un’altra parte dello stesso ego da un
punto di vista critico, e lo bombarda di opinioni conflittuali.
La principale caratteristica dell’ego è il
suo attaccamento alle proprie opinioni su di sé. Un’immagine di sé è stata
costruita e rifiuta di sciogliersi, cercando piuttosto di perpetuarsi. Ecco ciò
che chiamiamo la “persona”; è la rappresentazione di un’immagine di se stessi.
Ogni attività cosciente dell’entità
corpo-mente, quando arriva alla “persona”, fa apparire l’ipotesi di un “io” che
fa qualcosa e questo “io” sarebbe un’entità-continua, che dura.
Preferisco chiamare questo l’io piuttosto
che l’ego, perché è più facile riconoscerlo come qualcosa più sottile dell’
“ego primario”, anche se i due si compenetrano uno nell’altro. La differenza
principale, potremo dire, è che per l’ego primario gli altri vi disturbano e
sono disturbati da voi, mentre per l’io sottile voi siete per voi stessi il
vostro problema.
Buddisti e Vedantini
sono d’accordo sul fatto che l’io dovrebbe essere abbandonato se volete la
liberazione, ma sono in disaccordo sulla terminologia e sul modo in cui la
credenza nell’io può essere distrutta.
I Buddisti dicono: “Non c’è nessuna entità,
niente me o io, solo una sequenza causale di processi psichici e fisici
condizionati”. Del resto non parlano di un io, e arrivano a disapprovare
l’utilizzo del termine “io”. Per esempio “Quando guardiamo la natura di quello
che si crede essere “mio” o “io” e si tiene per fermo questo concetto, si
tratta di una visione ristretta, confusa, sbagliata”.
Al contrario, se gli insegnanti dell’ Advaita Vedanta concordano totalmente
con i Buddisti sull’inesistenza dell’entità “io”, continuano ad esprimersi in
termini di “me” e di “io”, anche quando si riferiscono a gradi di realtà
superiore. Perché?
Proveremo a dare una risposta alla luce
della “grande triade” degli insegnanti del XX secolo: Ramana Maharshi, Krishna Menon (Atmananada) e Nisargadatta
Maharaj. Tutti e tre usano la parola io per designare il principio più (o
pressappoco) elevato, rispettivamente come l’ “Io, Io”, il “Principio-Io” e l’
“Io sono”.
Questo può, se lo si vede dal punto di vista
del rifiuto dell’Io come una realtà, essere la causa dell’incomprensione, per
l’insufficienza della lingua.
Ascoltiamo prima il più vecchio dei tre, Ramana Maharshi. La sua influenza fu la
più grande, e non per niente che Ma Ananda May lo chiama “il Sole”.
Fu riconosciuto come la voce autentica dell’Advaita
e il suo messaggio ha la potenzialità della liberazione in questa vita. Tutto
nel suo insegnamento mirava al significato autentico dell’Io”. Invitava il
visitatore o l’adepto in cerca di una guida a farsi lui stesso la domanda “Chi
sono?” che conserva la forma di auto investigazione (vichara). Metteva in luce la
natura potente della domanda quando è posta in modo giusto, facendo
sciogliere pensieri e identificazioni.
Lasciava che l’effetto della domanda fosse
sperimentato direttamene dall’addetto in cerca di guida.
Comprendeva così che per la maggioranza
delle persone l’esperienza stessa esigeva anche delle fondamenta solide per una
giusta comprensione.La giusta interpretazione
dell’esperienza è importante come l’esperienza stessa. Spiegava così a più
riprese, in modo dettagliato, la relazione tra l’io e ciò che è realmente l’
“Io”, il Sé ultimo.
Mostrava la necessità di uccidere o
distruggere l’io (ahmn-kara)
o il pensiero-io (aham vritti), come
spesso lo chiamava. Ho spesso pensato che fosse un cattivo uso del linguaggio,
perché sembrava invitare al conflitto. In generale, una persona si trova già ad
affrontare la lotta con se stesso e penso che quella terminologia aggressiva
esiga una spiegazione. Se lo scopo finale è la pace, l’aumentare il conflitto
interiore non può essere intenzionale.
Egli poteva anche esprimersi in modo
diverso.Se qualcuno gli domandava come poteva
essere eliminato l’io, per esempio rispondeva: “Non avete bisogno di eliminare
il falso io. Come l’io potrebbe eliminarsi da solo? Tutto quello che avete
bisogno di fare è trovare la sua origine e stare là”.
Disse anche, un’altra volta, sul tema
dell’uccisone dell’ego: “ L’ego può permettere a se stesso di uccidersi? Se
cercate l’ego , scoprirete che non esiste. Questo è il modo di distruggerlo” e:
“Come può essere uccisa una cosa che non esiste?”.
“Scoprirete che non esiste”. Ecco sempre e ancora l’essenza
del suo argomentare. Tuttavia Ramana
parla spesso dell’io e lo descrive come se esistesse. Così si comincia a chiedere: “Ma allora che cosa
esiste e cosa non esiste?”.
La citazione seguente è illuminante: “C’è
il Sé assoluto da cui una scintilla sorge come da un fuoco. La scintilla è
chiamata ego. Nel caso di un uomo ignorante egli s’identifica immediatamente a
un oggetto come questo appare. Non può essere indipendente da quella
associazione con gli oggetti. Questa associazione è ajnana o ignoranza, la cui distruzione è l’obiettivo dei nostri sforzi.
Se la sua tendenza a oggettivarsi è distrutta, sarà puro e si fonderà
con la sorgente”.
Se lasciamo da parte per ora la parola
uccidere l’associazione con gli oggetti è la frase chiave, la tendenza
dell’io a identificarsi con gli oggetti. Questo è l’errore. Chi è che è
associato con cosa? Cosa o chi commette l’errore? Ramana Maharshi parla a più riprese di quell’associazione come un
nodo (granthi), il “nodo nel Cuore”.
“Anche se il corpo nella sua insensibilità
non può dire “Io” (cioè sentire l’ “Io”)
e anche se la Coscienza-Esistenza (Sat-Chit, il Sé) non si evolve e sta senza base, tra i due c’è un io come
un corpo (l’identificazione “io sono il corpo”). Sappiate che questo solo è il
modo tra la Coscienza e il non-sensibile (Chit-jada-granthi), la schiavitù
(banda), l’ego (ahamkara), lo stato mondano (samsara), la
mente ( manas)
e così via”.
Per Ramana
quel nodo deve essere tagliato. Ma ancora una volta: che significa questo
atto di apparente violenza? E’ sempre, alla fine, il significato di una visione
penetrante. Solo guardare.
Voi pensate sempre di stare guardando, ma
ora vi si domanda di guardare come fosse la prima volta. Se seguite
quest’indicazione, osserverete dove si trova quella “persona-io” ( che è il
nodo detto sopra). Dove trovo quella persona io? Ramana aveva usato un ottimo
esempio: “L’ego è un legame non materiale tra il corpo e la Coscienza Pura. Non
è reale. Finché non guardiamo attentamente, continua a porre problemi. Ma
quando lo cerchiamo, troviamo che non esiste.
In un matrimonio hindou,
la festa durò cinque o sei giorni. Uno straniero fu preso per errore per il
testimone di nozze dai parenti della sposa. Perciò lo trattarono con tutti gli
onori. Vedendolo trattato con tanto riguardo, anche gli amici dello sposo lo
consideravano come un uomo da rispettare in modo particolare. Così lo straniero
si prese buon tempo. Nondimeno sapeva com’era la situazione reale.
A un certo punto si rivolsero a lui per una
questione. Lo consultarono. Lo straniero evase il problema e si defilò. “Così è
l’ego. Se lo cerchiamo, scompare”.